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Storia di una Transapuana di fine ottobre

E’ un sabato di fine Ottobre, mancano tre giorni al mio compleanno e tutti i piani per il ponte lungo di Ognissanti sono andati in fumo. In un momento di follia, decido. Sai che c’è? Prendo lo zaino e vado a fare la traversata delle Alpi Apuane in solitaria. Senza programmi precisi né compromessi, per schiarirmi le idee tra le “mie” montagne. 

Cerco di stare leggera: niente tenda, pochi vestiti, tutto ridotto all’osso. Mi sono anche dimenticata le posate e la maglietta di ricambio. Il treno parte alle 5.52 di domenica mattina. Salto su ancora mezza addormentata, e continuo tranquillamente il mio sonno fino ad Aulla. Scendo immersa nella nebbia, per salire su un altro convoglio diretto ad Equi terme: un tempo località termale, oggi paese abbastanza dimenticato da Dio, ma punto di partenza della mia transapuana. Chiedo indicazioni sulla strada ad un paio di vecchietti affacciati alla finestra, poi inizia la salita. Mi tolgo strati di dosso un passo dopo l’altro, e subito mi trovo nel bosco dove il dislivello si macina in fretta. Quando gli alberi si diradano il sole è già alto, e rende subito palese la prima scelta sbagliata del viaggio: i pantaloni lunghi. Mi lego una bandana sulla testa e penso che tornerò abbronzata, nonostante sia ormai quasi novembre. 

Si profila davanti a me la parete più bella delle Apuane (e non solo): la Nord del Pizzo d’Uccello, 800 m di diedri e camini di calcare. Una vista difficile da dimenticare anche per me che tendo a cancellare la Ram abbastanza facilmente. Mi viene voglia di arrampicare, e penso che la Oppio Colnaghi, via storica su questa parete, deve assolutamente essere nei programmi della prossima estate. Proseguo per la cresta di Capradossa, meno aerea di quanto pensassi, verso la foce di Giovo. Mi trovo proprio sotto la parete sud del Pizzo, e in uno dei miei posti preferiti in assoluto in Apuane: una sella erbosa con panorama a 360° e un’aria che sembra quasi magica. E’ ora di pranzo ma è già iniziato lo stato di trance da montagna: zero fame, zero sete, solo voglia di andare un po’ più avanti. Arrivo al rifugio Orto di Donna, unico luogo civilizzato da cui passo durante la traversata, e approfitto per riempire le borracce. Ma mentre rimetto tutto di nuovo nello zaino, rimangono appoggiate su una panchina: me ne accorgerò tra circa tre ore, e questo mi costringerà a centellinare l’acqua fino al pranzo di domani. Una caratteristica delle Apuane è di avere pochissime fonti: essendo costituite quasi interamente da marmi e calcari, l’acqua trova le sue vie per scendere in profondità, non affiorando quasi mai. Con un’estate secca come questa, poi…

Il sentiero tra il rifugio e Foce di Cardeto è al cospetto del Pisanino, il monte più alto delle Apuane, e la mia idea originaria era di salirlo, non essendoci mai stata. Quando però mi ci trovo sotto, lo guardo, poi guardo avanti e decido che è troppo bella questa cavalcata, non me la sento di mollarla ora. Avrò questa tentazione di vetta anche per la Pania della Croce, e l’ho avuta sotto il Pizzo d’Uccello, ma il senso di questa avventura è un altro. Fare tanta strada, chilometri di dislivello e di sviluppo, vedere i paesaggi che mi cambiano intorno e sentire il gusto di camminare. C’è una certa soddisfazione, la sera, nel dire “stamattina ero lì”, indicando un luogo lontano e impossibile ormai da vedere.

Insomma, decido di andare avanti e mi trovo al Passo della Focolaccia, uno dei posti più deturpati dalle cave di marmo. Siamo nel cuore delle Apuane, poco sotto la vetta della Tambura: qui inizia la Carcaraia, piena zeppa di grotte carsiche, tra cui la più profonda d’Italia (Abisso Roversi -1300). Tra poco ci sarà la neve, e questo paesaggio darà il meglio di sé a chi avrà voglia di sciarlo. 

Mi affretto verso la Tambura, il sole sta per tramontare e il cielo è già rosso. L’aria leggera lascia vedere lontano, il golfo di Lerici e qualche cima alpina. Poco sotto la cima ricordavo uno spiazzo erboso abbastanza microscopico, decido di dormire qui: sospettavo che sarebbe successo. Mi godo il tramonto con calma, seduta per terra. I colori cambiano dentro i miei occhi, il mare è proprio sotto di me, cominciano ad accendersi le lucine delle città di Massa e Carrara. Si fa buio, e io sono sola in questo spicchio di marmo: mi sembra di essere al centro del mondo, e che tutto intorno giri. 

La notte è una cena cucinata con troppa poca acqua, poi una dormita all’addiaccio, senza vento, con molte stelle sopra la testa e tanti risvegli causa umidità.

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Mi alzo che è ancora buio, un po’ per la sveglia e un po’ per le bombe sparate dalle cave. Le costellazioni sono diverse da quelle sotto cui mi sono addormentata. Scaldo 100 ml di tè: ho costruito un sistema per far condensare l’umidità seguendo un tutorial, ma non è uscita neanche una goccia d’acqua. Scappo a vedere l’alba in vetta, decisamente spettacolare. Inizia qui la seconda giornata di trekking, cuore della traversata. Sbaglio subito strada e mi trovo su una ferrata abbastanza incazzata, senza imbraco e con uno zaino di una decina di chili sulle spalle. Ormai ci sono, quindi mi affido alle braccia e supero il tratto esposto. Non sono sicura del sentiero e sono tesa per l’esperienza appena passata, quando mi trovo in un posto familiare. Questa baracca col tetto sfondato la conosco e mi fa sentire a casa, allora mi rilasso e continuo la discesa in Arnetola. Qui mi fermo a mangiare un paio di biscotti prima di salire a passo Sella. Da sola, col fiatone e le spalle rosse dal peso dello zaino, mi si libera il cervello. 

Esco dal bosco e sono nel centro esatto delle Apuane: davanti Sumbra, Pania della Croce e Corchia, alle spalle Tambura, Roccandagia, Alto di SellaUn paio d’ore e sono in cima al Sumbra, scendendo verso il lago di Isola santa conosco un po’ di persone a cui racconto la mia avventura, mi invitano a bere un caffè con loro. Arrivata in paese sono le 14, mi fanno male i piedi, ho fame e sono stanca. Accetto quindi volentieri l’invito, ma dopo un quarto d’ora la febbre torna a salire, e mi sparo gli ultimi 500 metri di dislivello positivo per raggiungere Foce di Valli. Il sole mi tramonta davanti e mi commuovo un’altra volta. Resisto all’ultimo tratto di sentiero, esposto e al buio, prima di montare l’amaca tra i primi due alberi che trovo. Sono partita undici ore e mezzo fa: forse mi sono fatta prendere un po’ la mano, ma è stato bello camminare fino all’ultima energia. 

La cena di stasera è decisamente più decente rispetto a quella di ieri, sono riuscita a recuperare abbastanza acqua per due porzioni di risotto alla zucca. Mi metto a studiare l’itinerario di domani pensando di arrivare proprio all’ultimo centimetro di Apuane prima della pianura, poi mi rendo conto che in realtà ho camminato abbastanza. Domani è il mio compleanno, e mi viene improvvisamente voglia di essere a pranzo a casa, quindi decido di scendere a Stazzema: uno dei paesi più a Sud, ma non proprio il più a Sud. Mi sveglio con i piedi doloranti e una gran voglia di una doccia, cammino un’oretta con la frontale e il cielo mi regala un’ultima alba di fuoco. 

Il resto è discesa: monte Forato, foce di Petrosciana, costeggio il Procinto, poi Stazzema. Tocco l’asfalto e mostro il dito alla prima macchina che passa: non si ferma. Dopo qualche minuto la vedo tornare indietro, è una signora gentilissima che potrebbe essere mia mamma e che mi porta fino alla stazione. 

Questa traversata è stata un atto d’amore, per le mie montagne e per me stessa. Per le Apuane, che qualche anno fa per prime hanno preso in consegna la mia voglia di avventure e l’hanno accompagnata per un bel pezzo, con i loro marmi e i loro sentieri impervi. Per me stessa, perché pensavo che camminando da sola per tre giorni avrei avuto modo di pensare a tutti i miei dubbi, che forse ne sarei stata sopraffatta. E invece non è stato così, per una volta non ho pensato a niente che non fosse rimanere in cresta e continuare la mia cavalcata. E forse, ogni tanto, va bene così. 

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Autrice: Elena Casolaro